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> Il Vittoriale e il Museo della Guerra
WinstonChurchill
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 18:09
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Beh il M.A.S. gli è stato "donato" quindi tecnicamente non si configura alcun utilizzo di bene pubblico laugh.gif


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Odisseo
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 18:25
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QUOTE (WinstonChurchill @ Venerdì, 15-Feb-2013, 17:09)
Beh il M.A.S. gli è stato "donato" quindi tecnicamente non si configura alcun utilizzo di bene pubblico laugh.gif

Capisco ... fatte le debite proporzioni, sarebbe come se avessero "donato" lo Sparviero a Crozza ?



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WinstonChurchill
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 18:46
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Forse l'età mi impedisce di ricordare, ma Crozza quali benemerenze avrebbe acquisito presso la M.M.? Non credo basti l'occupazione dell'Ariston laugh.gif winks.gif


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Odisseo
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 19:16
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QUOTE (WinstonChurchill @ Venerdì, 15-Feb-2013, 17:46)
Forse l'età mi impedisce di ricordare, ma Crozza quali benemerenze avrebbe acquisito presso la M.M.? Non credo basti l'occupazione dell'Ariston laugh.gif winks.gif

... e non ha nemmeno occupato una città in aperta rivolta contro il Governo legittimo. smile.gif



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WinstonChurchill
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 19:37
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Tra una Monarchia che finì per adottare Mussolini, e una, assai atipica, sotto il profilo istituzionale, Reggenza (leggasi Repubblica) del Carnaro continuo a preferire la seconda, se non altro perché in quel luogo riuscirono a convivere, sotto un unico tetto, pacificamente e, per certi aspetti, proficuamente destra e sinistra. Se non mi credete date un'occhiata alla Carta del Carnaro. Vostro affezionatissimo Alceste

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Odisseo
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 20:31
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QUOTE (WinstonChurchill @ Venerdì, 15-Feb-2013, 18:37)
Tra una Monarchia che finì per adottare Mussolini, e una, assai atipica, sotto il profilo istituzionale, Reggenza (leggasi Repubblica) del Carnaro continuo a preferire la seconda, se non altro perché in quel luogo riuscirono a convivere, sotto un unico tetto, pacificamente e, per certi aspetti, proficuamente destra e sinistra. Se non mi credete date un'occhiata alla Carta del Carnaro. Vostro affezionatissimo Alceste

Non so ... non mi piacciono le Repubbliche autoproclamate, che annullano o, meglio, distruggono i risultati dell'unica consultazione popolare effettuata, proprio per non vedere (o non far vedere) i risultati del voto.
Non mi piacciono coloro i quali invitano alla diserzione i soldati, i marinai, gli aviatori, i pubblici funzionari (tutta gente che ha giurato fedeltà al proprio Governo).
Non gradisco quelli che spingono alla guerra civile, nè quegli avventurieri che, ammantandosi di glorie (??!!) militari, si ergono a "capi", quasi per legittimazione divina, nè quelli che sfruttano l'onda della smobilitazione degli eserciti e che usano la massa disoccupata dei militari per le proprie "imprese".
Non gradisco l'uso a scopi privati delle vite altrui, nè l'ammassare prostitute, nè esibire i vizi per il solo gusto di esibirli in quanto tali.
Non mi piacciono le costituzioni sulla carta, come non mi piace la Repubblica di Platone.

... ogni riferimento è puramente casuale, ma non mi piace D'Annunzio e nemmeno il suo emulo del dopo 8 settembre.

Messaggio modificato da Odisseo il Venerdì, 15-Feb-2013, 21:10


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WinstonChurchill
Inviato il: Venerdì, 15-Feb-2013, 22:01
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Deo gratias per un volta non siamo d'accordo...meglio festeggiare l'evento -drink.gif laugh.gif


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WinstonChurchill
Inviato il: Lunedì, 04-Mar-2013, 11:50
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Gian Carlo Fusco nel suo volume "Le rose del Ventennio", pubblicato con varie case editrici (Einaudi nel 1959; Rizzoli nel 1974; Sellerio 2000) riferisce che il Capitano del Genio Navale Fortunato Silla, cui venne affidata nel 1924 dall'Arsenale di La Spezia la direzione dei lavori, ritenne eccesivamente oneroso il trasporto della prora della nave a Gardone optando per una ricostruzione della stessa in lamiera.
La notizia trova conferma anche in questo articolo di Bruno Cianci (V. inizio pag. 74), che per un attimo, con il suo sottotitolo un po' fuorviante (Nave da Battaglia blink.gif ), mi ha illuso di poter incrociare un classe Littorio sulle sponde del Garda laugh.gif :

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Fortunato Silla:

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Devo l'immagine e l'articolo pubblicati alla cortesia di Romano ( il nostro Pesce Esodato laugh.gif )

Messaggio modificato da WinstonChurchill il Lunedì, 04-Mar-2013, 14:11


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Miky
Inviato il: Martedì, 05-Mar-2013, 17:47
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Chissà se quello al timone è il Sig. Vincenzo Cama di cui alla tua precedente citazione:

QUOTE
1) "[...] non si può parlare degli avvenimenti nautici del Vittoriale senza ricordare i Cama, padre e figlio. Vincenzo Cama, marinaio siciliano sulla nave Puglia , era giunto a Gardone Riviera nel 1925 su richiesta di D'Annunzio. Egli fu uno degli artefici della sistemazione della Puglia sul promontorio della Fida. Terminata l'opera, il poeta chiese al giovane marinaio di restare a Gardone come cannoniere della nave e pilota del M.A.S. 96, con il quale D'Annunzio amava sfrecciare sulle acque del Garda. Vincenzo Cama accettò l'offerta, si sposò ed ebbe tre figli [...]. I suoi eredi conservano gelosamente diverse lettere del Comandante e un messaggio vergato dal poeta nel 1928 in cui si legge: [...] e questo nocchiero si chiama Vincenzo Cama, quasi inviato alla Custodia dell'Altare da un non cieco destino; poiché in un arcano linguaggio d'Asia la parola Cama significa Amore".


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WinstonChurchill
Inviato il: Martedì, 05-Mar-2013, 20:31
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In effetti ci ho pensato ma attendo ulteriori riscontri rolleyes.gif .


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Corazzata Roma
Inviato il: Venerdì, 08-Mar-2013, 19:16
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QUOTE (WinstonChurchill @ Martedì, 05-Mar-2013, 19:31)
In effetti ci ho pensato ma attendo ulteriori riscontri rolleyes.gif .

Mi inchino veneration.gif davanti a voi!! siete aggiornatissimi.... clap.gif


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WinstonChurchill
Inviato il: Venerdì, 15-Mar-2013, 11:45
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Troppo buono amico mio winks.gif . Ecco le pagine che Gian Carlo Fusco dedica all'argomento (vi assicurano che meritano di essere lette se non altro per il tono dissacrante che le caratterizza):

"Il quarto ordine del Vittoriale

Negli ultimi mesi del 1924, il ministero della Marina venne nella determinazione di assegnare la prora della nave Puglia a Gabriele d'Annunzio, il quale aveva fatto richiesta di quell'importante cimelio dàlmata per collocarlo nei pressi del Vittoriale, in modo che diventasse una specie di altare sul quale il poeta aveva intenzione di celebrare, periodicamente, i riti augurali dell'irredentismo insoddisfatto. Subito dopo il decreto ministeriale, i pezzi della nave cominciarono a partire dall'arsenale della Spezia, dove la Puglia si trovava in demolizione, alla volta di Gardone Riviera. A Gardone, il ministero aveva distaccato, in missione straordinaria, un giovane e simpatico capitano del genio navale, Fortunato Silla, al quale era stata affidata la direzione dei lavori. Il capitano, giudicando poco pratico e, soprattutto, antieconomico trasportare integralmente dalla Spezia al Vittoriale la fatidica prora, decise di ricostruire lo scafo della medesima adoperando lastre di comune lamiera e volgare bandone, acquistate al commercio. L'autenticità del cimelio veniva così ristretta alle sole attrezzature: bitte, sartiame, bocche di rancio, battagliole, ancore, cubie. Il tutto collocato su un basamento di calcestruzzo, in mezzo a quattro malinconici cipressi. Nonostante la non lieve adulterazione della prora, D'Annunzio se ne mostrava entusiasta. Seguiva personalmente i lavori, che «fervevano instancabili» a qualche centinaio di metri dall'Eremo, e quasi giornalmente andava a visitare le maestranze, alle quali recava il conforto di alate parole, citazioni classiche e «libagioni». Il comandante chiamava tutti con nomi appositamente escogitati a seconda dell'arte di ciascuno, e amava accarezzare, con le mani morbide e bianche, i rudi attrezzi, i legnami e le ferramenta. Indossava, di solito, un abito grigiochiaro, a un solo petto, col panciotto: aveva sotto il mento, leggermente ingrassato, una farfallina color sangue di drago e in testa un berretto a visiera, di tipo turistico. Non vedeva l'ora che la prora fosse compiuta. Immaginava di salire un giorno sul ponte di comando, per dare inizio a una crociera ideale verso il riscatto di Spàlato. La bassa e intensa verzura gardesana, all'intorno, avrebbe riprodotto con sufficiente fedeltà le onde dell'Amarissimo. Il capitano Silla, primo «artefice» della ricostruzione, abitava al Vittoriale ed era carissimo a D'Annunzio, il quale lo convocava a rapporto ogni pomeriggio, gli dava raffinati consigli letterari ma non privi di pretese tecniche, e gli offriva preziosi bicchierini dei due principali liquori di sua invenzione: la «cofficiucca» e il «cerasello». Mentre a Gardone le cose procedevano a questo modo, alla Spezia la faccenda della Puglia aveva i suoi sviluppi di carattere burocratico e amministrativo.
A quel tempo, la direzione amministrativa delle costruzioni navali presso l'arsenale spezzino era tenuta da un maggiore commissario, meridionale, sulla quarantina, di media statura, bruno, vivace e fantasioso che si chiamava Carlo Pensotti. Nonostante quell'ufficiale fosse naturalmente versato alla rigida disciplina
dei numeri, tanto che aveva sentito il bisogno, già capitano, di perfezionare con la laurea in economia e commercio il suo diploma di ragioniere, era tutt'altro che insensibile ai richiami della letteratura e dell'arte. Come su molti della sua generazione, D'Annunzio aveva esercitato su di lui un fascino straordinario, con l'opera multiforme e l'avvincente biografia. Fin dagli anni giovanili, quando il maggiore stava facendo con profitto i suoi studi nel Convitto Nazionale di Assisi, l'immagine di Gabriele, conteso dalle principesse romane e letto con segreto ardore dalle fanciulle, aveva profondamente impressionato la fantasia del futuro ufficiale di Marina. Egli aveva sempre sperato di incontrare il poeta d'Alcyone, e all'epoca dell'impresa fiumana aveva perfino accarezzata l'idea di abbandonare i quadri regolari per andarsene a militare sotto le insegne del glorioso ribelle. Solo l'incertezza dell'impresa e un lodevole senso di responsabilità verso la famiglia (moglie e due figli) avevano trattenuto il maggiore dal mettere in esecuzione il suo piano. Adesso che la pratica della Puglia, sia pure in senso del tutto amministrativo, era di sua diretta competenza, l'ufficiale commissario era fermamente deciso a fare tutto il possibile per realizzare il proprio sogno: avvicinare D'Annunzio. La sorte, del resto, gli era favorevole, perché il capitano Silla era suo ottimo amico e avrebbe potuto facilitare l'incontro. Il maggiore scrisse a Gardone e il direttore dei lavori gli rispose ch'era disposto ad aiutarlo con ogni suo mezzo. Si trattava di attendere la prima occasione. Nella primavera del '25, però, le speranze del maggiore Pensotti furono sul punto di andare a picco. Si venne a sapere che un ricco industriale milanese, il quale pare avesse trovato conforto a certe disavventure amorose nella lettura dei romanzi dannunziani, aveva bussato alla porta del Vittoriale per essere ricevuto dal poeta, al quale recava in omaggio una bellissima automobile fuoriserie. L'industriale non era stato ricevuto e c'era rimasto malissimo. Dopo qualche giorno, fu la volta del marchese di Valle Aperta, giunto a Gardone in missione semiufficiale. Anche il distinto patrizio romano non riuscì a varcare la porta dell'Eremo e tornò indignato alla capitale. Si sparse allora la voce che D'Annunzio avesse improvvisamente deciso di raccogliersi in una clausura ancora più stretta e inaccessibile. Il maggiore Pensotti, allarmato, scrisse all'amico Silla per sapere qualcosa di preciso. La risposta dell'ingegnere navale fu tale da confortarlo. Il comandante non aveva affatto cambiato le regole della propria vita: era semplicemente afflitto da un grave esaurimento nervoso. Il grande uomo non riusciva a dormire e spasimava tutta la notte in attesa della luce solare. L'alba gli portava un po' di sollievo, ma prima di mezzogiorno una fatica estenuante lo aveva già preso e gli faceva agognare il tramonto. Non usciva quasi mai dalla propria camera e raramente si spingeva fino allo studio, nel quale, da un'apposita fessura aperta alla base di un muro, la primavera già spingeva una spalliera di rose. Sul tavolo da lavoro, una risma di carta di Fabriano, giallina e leggermente sfrangiata, attendeva che Gabriele cominciasse a scrivere una ode per Spàlato, «vagheggiata» da tempo. Ma già tre volte i tentativi del poeta si erano fermati al primo o al secondo verso. Eppure, l'ode gli «premeva dentro come il figlio alla madre». Si trattava, evidentemente, di un parto difficile. Tuttavia, come informava il capitano Silla, non erano quelle difficoltà creative a maggiormente angustiare D'Annunzio, il quale si doleva, soprattutto, di non poter più seguire da vicino i lavori della Puglia
che andavano avvicinandosi alla fine. Non dubitasse a ogni modo che, al momento opportuno, la visita al Vittoriale si sarebbe conclusa. Ai primi di luglio, infatti, D'Annunzio annunciò ai familiari di sentirsi quasi completamente ristabilito. Cominciò a uscire dal Vittoriale per passeggiate sempre più lunghe e, naturalmente, per prima cosa andò a visitare i lavori, ormai quasi compiuti. L'8 luglio, non appena D'Annunzio si dichiarò disposto a ricevere qualche visita, il capitano Silla non perse tempo e telegrafò al maggiore Pensotti. Costui, dal canto proprio, nonostante fosse scrupolosissimo nelle questioni di servizio, aveva già preparata una missione speciale (che a rigore sarebbe spettata al personale del dipartimento marittimo di Venezia), la quale, al momento giusto, gli avrebbe permesso di partire subito per Gardone. L'11 luglio, col primo treno, il maggiore era già in viaggio alla volta di Brescia, in compagnia del colonnello del genio navale Curio Bernardis, il quale rappresentava l'aspetto tecnico della missione. Era un robusto cinquantenne, dal viso colorito e i capelli grigi, con occhi di smalto azzurro, famoso nell'ambiente della marina come uno dei maggiori esperti di armi subacquee che vi fossero allora in Italia. Aveva già avvicinato D'Annunzio all'epoca delle beffe adriatiche e, in verità, aveva del comandante un concetto assai modestamente favorevole. Durante il viaggio, anzi, i due ufficiali discussero un po' a proposito di Gabriele e dei suoi meriti complessivi. Il colonnello Bernardis, in sostanza, considerava il poeta come un ragguardevole sopravvissuto. Alla stazione di Brescia, i due trovarono la torpedo del comandante, rossa e lustra come uno zénzero, che li portò a Gardone in una corsa forsennata, da togliere il fiato, che si arrestò soltanto davanti alla porta del Grand Hotel. Un'ora dopo, gli ufficiali ricevettero il primo affettuoso «messaggio» di D'Annunzio, il quale, informato del loro arrivo, li salutava, li pregava di volerlo scusare se non aveva potuto sistemarli al Vittoriale, tutto sossopra per via di certi lavori, e li avvertiva che, nonostante in albergo, dovevano considerarsi suoi ospiti. Li aspettava per il giorno dopo, prima di mezzogiorno, lieto di consumare in loro compagnia il suo «francescano pasto». Sul Garda, la stagione, in quel periodo, era morta. La sera, i due ufficiali cenarono nello sfarzoso e immenso salone dell'albergo, illuminato da una luce diffusa e un po' triste, pressoché vuoto, dove, in mezzo ad alcune palme, una decina di suonatori inappuntabili eseguivano un dignitoso programma di musica leggera. Poco prima di andare a tavola, il maggiore e il colonnello avevano incontrato il conte Arese, di Milano, ex ufficiale di marina, famoso per il brillante treno di vita e le mille avventure galanti.
L'indomani, poco dopo le dieci, l'architetto di D'Annunzio, Gian Carlo Maroni (che quando era entrato al Vittoriale aveva spedito agli amici la sua partecipazione di morte), guidò i due visitatori alla presenza del comandante. L'architetto faceva strada, in una mezza luce qua e là lampeggiante di riflessi vetrini. Era uomo di mezza statura, pallido, con una morbida barba fratesca diffusa sulle gote e sul mento. Trovarono il poeta, in attesa, davanti ai vetri di una finestra, in fondo a una piccola stanza a pian terreno, pavimentata di mattoni, le cui pareti erano quasi completamente occupate da stalli neri. Una specie di sacrestia. D'Annunzio
aspettava stando di profilo, immobile. Avvertendo la presenza dei tre, ebbe come un morbido risveglio. Si voltò e sorrise pallidamente. «Benvenuti, benvenuti nella mia povera casa» egli disse, tendendo una piccola mano, bianchissima. Il maggiore Pensotti prese quella mano non senza emozione e si trattenne dallo stringerla, quasi per il timore di romperla. La prima occhiata alla persona del poeta lo aveva, però, alquanto deluso. Se l'era sempre immaginato magro, vivo come un fascio nudo di nervi. Invece, lo trovava piuttosto grasso, avvolto in una pinguedine senile che ne riquadrava decisamente le forme e ne appesantiva i movimenti. Qualche tempo dopo, tornato alla Spezia, il maggiore disse agli amici, con qualche riluttanza, che la figura di D'Annunzio gli aveva subito rammentato, con quella testa pulita e lucida, certi flaconi di profumo con tappo metallico. Il colonnello Bernardis strinse la mano del comandante con incurante vigore. «Benvenuti, benvenuti» continuava ad augurare Gabriele, tenendo ferma la testa calva, quasi senza collo. Il suo accento spiccatamente abruzzese, nonostante la pronuncia accurata ed estremamente precisa delle parole, costituì per il maggiore una seconda, grossa sorpresa. D'Annunzio indossava un completo marrone, a due petti, aveva una camicia di seta cruda e la cravatta marrone. Il vestito era di taglia irreprensibile, e tutti gli accessori dell'abbigliamento mattinale rivelavano una sorvegliata eleganza. Dalla tasca della giacchetta, faceva capolino un fazzoletto di batista d'incredibile finezza. Per la verità, il maggiore s'era preparato a dire qualcosa: ma il poeta non gliene diede il tempo. Parlava già infatti, con la sua precisa voce pescarese, come un filo che si distendesse sottile ma tenace, di una certa visita fattagli, qualche giorno avanti, da un piccolo frate francescano, il quale gli aveva fatto notare la sua somiglianza col poverello d'Assisi. «Tutt'e due avete le mani bucate» aveva detto il fraticello, alludendo alla prodigalità del poeta. Il quale, adesso, commentava la battuta con una lieve risata, un po' femminea. Era un aneddoto arcinoto. I due ufficiali lo conoscevano già, e sentirselo ripetere così, subito, dal personaggio interessato, li mise alquanto a disagio. In quel momento, per fortuna, arrivò il capitano Silla, giovanile e festoso, che portò un po' di animazione nella scena. Il gruppetto si mosse, D'Annunzio in testa, per visitare il Vittoriale. Il comandante non ristava mai dal parlare. Camminava a piccoli passi, decantando senza ombra di riserva la propria abilità per gli adattamenti che aveva studiati e personalmente operati in «quella povera casa di campagna». Ecco un salotto dalle pareti scarlatte, dipinto di sua propria mano, con la vernice avanzata dopo la pittura dell'automobile. Questa, ove adesso giganteggiano due teste di cavallo, forse riprodotte da quella di Ercolano, era stata una ben misera ed oscura dispensa. E l'idea di fare arrivare nello studio una spalliera di rose, non era originale? Rose rosse, come il sangue degli eroi. La visita continuò all'aperto, verso il maggior cimelio del Vittoriale, la famosa prora, tanto cara al poeta. Nell'aria calda e ferma di luglio, i cipressi, attorno, si alzavano immobili. Le ancore della nave scendevano a mordere la finta roccia sottostante, quasi per frenare un'eccessiva impazienza di salpare verso la lotta. Tutti, per una magra scaletta, salirono a bordo. D'Annunzio mostrava gli arnesi e le strutture con grande compiacimento, rammentandone il nome, con le relative varianti filologiche, e rievocandone, talvolta, la tradizione marinara. A un certo punto accarezzò, lentamente, la bocca di un cannone da "76" puntato in direzione di
una villetta occhieggiante fra gli alberi, in lontananza. Spiegò che quella villa, appartenente a un «mercante» danaroso, gli era oltremodo antipatica. Contava, alla prima occasione, di aprirle addosso il fuoco di quel suo. modesto ma preciso pezzo. «Lo farò, lo farò» diceva, mettendo in mezzo alle parole una risatina secca e realmente minacciosa. Il maggiore Pensotti, da una parte, ascoltava perplesso. Poi il comandante si portò sulla. punta più avanzata della prora e, con le braccia conserte, cominciò a battere il piede sulla plancia dicendo: «Di qui, di qui, da questo punto, io partirò per liberare la Dalmazia». Si guardava un momento attorno, ridacchiava con palese felicità e tornava a battere il piede calzato da una scarpa bianca e marrone, sottile. «Di qui, di qui» ripeteva e intorno tutti assentivano interessati. Intanto era arrivato mezzogiorno e la compagnia si avviò, a lento passo, verso il pranzo. Il maggiore Pensotti notò, al primo sguardo, che il pasto del comandante, per essere «francescano», era imbandito in maniera straordinaria. La tavola era coperta da un prezioso drappo di broccato giallo sul quale si ammassavano, senza alcun ordine, centinaia di ninnoli, calici di cristallo, stoviglie d'ogni stile (qualcuna d'oro), ricche ampolle per l'olio e l'aceto, saliere d'argento cesellate, pugnali dalla lama damaschinata o niellata, teche e statuette d'avorio. Da un lato, la tavola si prolungava in un piano inclinato, che saliva fino a metà della parete, poi faceva una curva e girava tutt'attorno alla stanza, formando una specie di ballatoio. Tanto il piano inclinato quanto il ballatoio erano completamente pieni di oggetti, minuti, bizzarri e disparati, che andavano dai calici di chiesa alle piccole deità orientali di giada, da certe vecchie lucernette di rame ad alcuni modernissimi soprammobili di ceramica. D'Annunzio fece sedere il maggiore e il colonnello davanti a sé, dicendo che non li conosceva ancora abbastanza e perciò voleva vederli in faccia durante il pranzo; il capitano Silla prese posto alla sua destra, dalla parte dell'occhio cieco, tanto si trattava di una conoscenza ormai vecchia. Poi entrarono due donne, magroline, calzate di sandali, le quali, movendosi senza rumore e senza parola, cominciarono a servire le varie portate, numerose e complesse.
Intanto D'Annunzio parlava, senza sosta, d'un po' di tutto. Quando, approfittando d'una breve pausa, il maggiore Pensotti cercò di portare la conversazione sul tema dell'arte, il poeta raccolse lo spunto con entusiasmo e dissertò lungamente, attorno all'arte culinaria. Ricordò fra l'altro, che al tempo di Arcachon si era dedicato con impegno alla creazione di certi arrière-gouts rimasti esemplari. Il «francescano» pasto si prolungò così per alcune ore, e si concluse con una degustazione di «cofficiucca». Dopo, tutti andarono su un terrazzino inghiaiato, e lì D'Annunzio tornò a parlare dei suoi propositi guerreschi per la liberazione della Dalmazia. La sua voce, adesso, era un po' stanca ma le intenzioni fermissime. Era sicuro di portare a compimento l'impresa, con un pugno di seguaci di gran fegato, pronti a osare l'inosabile. Non temeva avversari: si sentiva irresistibile. E a questo proposito, rammentò che la «divina» (Eleonora Duse), ogni volta ch'egli le dava riprova della sua strapotenza, era solita ripetere una frase ch'ella si sforzava di pronunciare con la cadenza abruzzese: «Cu cchesto nun ce s'appò!» (Con questo non ci si fa). Poi il poeta, con aria di mistero, confidò agli ufficiali di essere il Priore di un «Quarto Ordine Francescano», da lui stesso
istituito, con una «Regola» interamente contenuta in una sola parola: «Spàlato!». Il maggiore e il colonnello, dopo quella rivelazione mistica, vennero senz'altro nominati frati di quell'ordine. Un semplice abbraccio bastò a conferire la nomina, seguito dal giuramento solenne di abbandonare tutto, casa, figliolanza, e qualsiasi altro dovere, quando l'ora dell'impresa fosse venuta. Dopo il giuramento, tutti si sentirono piuttosto stanchi. La testa calva del comandante sudava. Il pieno pomeriggio di luglio alitava un calore di forno. Per qualche momento, nessuno disse parola. Fu il maggiore Pensotti a rompere il silenzio, con una domanda fatta così, per dire qualcosa. Che ne pensava il comandante del fascismo? D'Annunzio, per la prima volta nella giornata, si fece cogitabondo. Abbassò il capo e mise il mento sottile nella forcella delle dita. Poi diede un'occhiata attorno e disse semplicemente: «Venite». Aprì la marcia e guidò la comitiva attraverso le stanze in penombra del Vittoriale. In fondo a un corridoio c'era una porta isolata, bianchiccia. Il poeta aprì quella porta e si fece da parte per far passare gli ospiti. Appena entrati, nonostante la raffinatezza degli arredi, l'eleganza delle mattonelle e un grosso budda verniciato di bianco che moveva la testa e la mano in segno d'invito, gli ufficiali s'accorsero che Gabriele li aveva pilotati nel cesso dell'Eremo. Si mostrarono, naturalmente, alquanto meravigliati di quell'approdo imprevisto. Ma D'Annunzio parlava già. «Io vi dirò, o carissimi frati miei,» egli diceva «quello che penso del partito fascista. Ma voi dovete prima giurarmi, per il vostro onore di ufficiali della Marina e per quello della nostra confraternita guerriera, che non ripeterete ad alcuno, prima che passino venti anni, ciò che sto per confidarvi.» Gli ufficiali si affrettarono a giurare nelle bianche mani del Priore. Il quale continuò: «Il mio pensiero si racchiude in sei parole: con la m... non si fabbrica!». Era un giudizio tutt'altro che ermetico, e gli ufficiali, piuttosto sorpresi, restarono senza parola. Si limitarono a vaghi cenni della testa e ad esclamazioni che avrebbero potuto essere di consenso come di protesta. Intanto si scambiavano occhiate furtive. Non erano sicuri che D'Annunzio avesse parlato sul serio. Dopo qualche minuto, la visita finì. Vi furono promesse, auguri di buona salute e abbracci. L'ultima immagine del comandante, restò quella di lui che salutava con le mani sollevate all'altezza delle spalle, in un atteggiamento di estasi. La sera, nell'enorme e vuota sala del Grand Hotel, il colonnello e il maggiore mangiarono qualcosa di leggero, parlando poco e ascoltando senza troppo interesse l'orchestra che suonava una selezione di operette viennesi. Videro il conte Arese, tarchiato e sicuro di sé, il quale camminava al fianco di una dama avvenente. Era una bella donna, ma l'idea di appartenere, ormai, al quarto ordine francescano, impediva di apprezzarne le seduzioni col dovuto slancio. Tutto sommato, i due ufficiali si sentivano stanchi e piuttosto tristi. La notte dormirono poco, di un sonno sudato e affannoso, e la mattina, col primo mezzo, partirono da Gardone.
Qualche tempo dopo, ai primi freschi, i lavori della Puglia arrivarono a compimento. D'Annunzio fece sparare una decina di cannonate in segno di festa. Il pezzo naturalmente era caricato a salve, così che, anche per quella volta, la casa del "mercante" fu risparmiata. L'autunno era già inoltrato, fra piogge frequenti, allorché il comandante inviò un messaggio a Mussolini, suo «grande fratello», per invitarlo
a visitare il suo monumentale cimelio. Mussolini, che in quel tempo era ormai completamente rinfrancato dopo la burrasca matteottiana, rispose che sarebbe arrivato di lì a pochi giorni, per trascorrere una bella giornata in compagnia del poeta. Il duce, infatti, scese davanti al Vittoriale, da una grossa macchina nera, verso la fine d'ottobre. La visita aveva carattere strettamente privato, senza manifestazioni di popolo. Solo una decina di squadristi e gerarchi bresciani, venuti a conoscenza della cosa, erano accorsi per gridare qualche «alalà». Mussolini aveva un'ottima cera. Indossava un impermeabile marrone, strettamente annodato alla vita, dal quale faceva capolino il colletto alla diplomatica. In testa una bombetta nuova, guanti di renna e scarpe fatte su misura, a doppia suola. Si muoveva con aria disinvolta e gagliarda. Sorrise ai pochi fascisti della vecchia guardia gardesana che gli avevano improvvisata la piccola manifestazione alla porta del Vittoriale, sollevò rapidamente la mano guantata e poi sfiorò la spalla del camerata più vicino, un certo Ludrini, dicendo: «Ciao, canaglia». Sulla porta dell'Eremo c'era Gian Carlo Maroni, insieme al prefetto e a qualche altra autorità. Ma quasi subito arrivò D'Annunzio a ricevere il suo «grande fratello». «Vieni, Benito, che voglio stringerti tre volte sul cuore» diceva il poeta, allargando le braccia. Era vestito di grigio, col berretto a visiera e la farfallina sangue di drago. «Vieni, vieni» ripeteva, mentre Mussolini gli andava agilmente incontro, con un largo sorriso. Si strinsero, Gabriele premeva la gota sulla spalla dell'impermeabile e la falda della bombetta toccava l'orlo della visiera. Poi tutti entrarono. Il duce e D'Annunzio andavano avanti, tenendosi per la vita e parlottando. «Ti trovo benissimo» disse Mussolini. «Sei in forma.» Il comandante ridacchiava compiaciuto, e diceva che la salute gli ci voleva per l'ultima grande avventura in Dalmazia. «Dopo, soltanto dopo, il poeta potrà morire» dichiarò. «Tu ci seppellisci tutti» garantiva il duce. Più tardi andarono sulla prora e Mussolini si congratulò con le ultime maestranze che finivano di mettere a punto il cimelio. In alto sventolava il gran pavese. Era in programma una gita sul lago. Il duce e D'Annunzio s'imbarcarono sul motoscafo privato del poeta, dotato di un motore potentissimo. L'imbarcazione si staccò dalla sponda, acquistò subito velocità, e dopo qualche minuto quelli ch'erano rimasti a terra la videro filare fra due baffi di spuma, lontano. Mussolini stava in piedi, con le mani sui fianchi, vicino alla figuretta grigia di Gabriele, che tendeva il braccio a illustrare il paesaggio. Una bandierina coi colori di Fiume sventolava a poppa. Quando il maggiore Pensotti, alla Spezia, lesse sui giornali il resoconto della visita di Mussolini al Vittoriale ripensò alle sei parole di D'Annunzio, confidate sotto vincolo di giuramento, e restò qualche tempo soprappensiero".
Testo tratto da: Gian Carlo Fusco, "Le rose del ventennio", Rizzoli Editore, Milano, 1974.

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WinstonChurchill
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Una caricatura che ritrae Curio Bernardis (per cui devo ringraziare il nostro Romano che me l'ha girata):

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Nel seguente scatto si intravede Fortunato Silla alle spalle del Vate impegnato ad assolvere il ruolo di "alfiere" nel corso della cerimonia di inaugurazione del monumento:

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La riproduzione di una lettera che D'Annunzio inviò al suo "Caro Compagno":

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Due immagini relative alle opere di edificazione:

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Per ragioni pratiche ho tratto queste fotografie dal forum Miles ( http://miles.forumcommunity.net/?t=40173780 ) ma, urge precisare, che questi documenti sono esposti nell'ambito della mostra, dedicata alla costruzione del mausoleo, allestita dalla Fondazione del Vittoriale all'interno del simulacro della Regia Nave Puglia.

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Miky
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Giordano Bruno Guerri mi sembra stia facendo un ottimo lavoro al Vittoriale


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Nelson
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